Quando negli anni Sessanta del secolo scorso il filosofo ed economista Ernst Friedrich Schumacher scrisse “Small is beautiful” (Piccolo è bello), le microplastiche non rappresentavano certamente il problema ambientale che costituiscono oggi. L’opera, che anticipa temi (tra cui quelli ambientali) che sarebbero diventati di cogente attualità decenni dopo, si concentra sulla necessità di riscoprire un’economia a “misura d’uomo”.
Noi abbiamo preso in prestito il titolo del saggio di Schumacher per parlare di questi materiali, così diffusamente presenti nei nostri ecosistemi e strettamente collegati alle attività produttive umane, la cui gestione (e riduzione) si pone come indispensabile per la salvaguarda degli ecosistemi naturali e la protezione della nostra salute.
Micro e nanoplastiche: cosa sono?
Quando parliamo di microplastiche, sappiamo a cosa ci stiamo riferendo? Sappiamo che esistono anche le nanoplastiche?
Per capire cosa siano, facciamo riferimento al sito dell’EFSA, che definisce le microplastiche e le nanoplastiche come frammenti di piccole dimensioni (rispettivamente inferiori ai 5 mm e tra 0,001 e 0,1 micrometri) di polimeri di origine petrolifera, prodotti come tali o generati per frantumazione di oggetti, a terra o in acqua.
La prima e più nota fonte di microplastiche è rappresentata da contenitori plastici scaricati nelle acque e degradati dagli agenti atmosferici, dal moto ondoso e dallo sfregamento contro gli scogli. Si parla in questo caso di microplastiche secondarie, che rappresentano il 68-81% di quelle presenti negli oceani.
E la quota rimanente? Forse non tutti sanno che si possono generare microplastiche e rilasciarle nell’ambiente in molte altre maniere: per esempio lavando in lavatrice indumenti sintetici o semplicemente viaggiando in auto, in quest’ultimo caso a causa dell’attrito degli pneumatici contro l’asfalto. O, ancora, risciacquandosi dopo l’uso di prodotti per il make-up o per l’igiene personale. Oppure gettando a terra i filtri delle sigarette, che contengono il polimero plastico acetato di cellulosa. Questi sono esempi di microplastiche primarie.
24,4 trilioni di frammenti di microplastiche nelle acque superficiali del globo
Questo il dato calcolato nell’ambito di uno studio pubblicato nel 2021. Un numero impressionante, che si affianca agli altri dati altrettanto impressionanti forniti nel corso del nostro podcast della serie Fatti di Terra dedicato proprio all’argomento delle microplastiche e che ha visto ospite Marta Bonaconsa, Ceo di Nanomnia.
Da decenni micro e nanoplastiche si accumulano in laghi, fiumi, mari e oceani, dove tendono a galleggiare, per questioni di peso specifico. Essendo polimeri, esse hanno la tendenza ad assorbire molecole come gli idrocarburi policiclici aromatici, i policlorocarburi, alcuni antibiotici e numerosi agrofarmaci. Viaggiando con le correnti, queste particelle raggiungono luoghi anche molto lontani da quelli di origine e finiscono per entrare nelle più svariate catene alimentari che partono da pesci e crostacei che le ingeriscono nutrendosi, con tutto il loro carico inquinante. Non solo, le particelle <20 μm possono penetrare le membrane cellulari, aggravando i rischi per gli organismi riceventi.
Micro e nanoplastiche non si accumulano solo nei bacini idrici più o meno ampi: diversi studi ne dimostrano l’ubiquità negli ecosistemi. La possibilità che vengano ingerite o inalate dai vertebrati, uomo compreso, è quindi molto elevata.
Il ruolo dell’agricoltura
Anche di questo si è parlato nel nostro podcast. L’agricoltura da un lato è “vittima” dell’inquinamento da micro e nanoplastiche, poiché esse inquinando i terreni agricoli possono essere assorbite dalle coltivazioni, ma dall’altro contribuisce alla genesi del problema, facendo ampiamente ricorso a materiali plastici. Si pensi alle pacciamature, alle tubature per l’irrigazione, alle coperture per le serre, alle microincapsulazioni di agrofarmaci e fertilizzanti, per fare alcuni esempi. Ampio è anche il dibattito attorno all’opportunità di utilizzare fanghi di depurazione come ammendanti e fertilizzanti, proprio per il loro carico elevato di microplastiche.
Il tema dell’inquinamento da microplastiche è relativamente recente in agricoltura, tanto che il mondo della ricerca concorda nell’affermare che molti degli aspetti riguardanti l’interazione tra queste sostanze e il suolo, nella sua frazione organica (morta e viva) e inorganica, necessitino di approfondimento. La mesofauna del suolo, per esempio, potrebbe avere un ruolo determinante nella diffusione delle microplastiche in senso orizzontale, mentre l’incorporazione di queste particelle nei microaggregati del suolo potrebbe contribiure alla loro immobilizzazione.
I rischi per la nostra salute
Piuttosto numerose sono le evidenze scientifiche relative alla pericolosità delle microplastiche che ingeriamo quando queste sono vettori di sostanze chimiche diverse. Molto ancora resta da capire, invece, sui rischi di natura fisica e chimica che corriamo entrando in contatto con microplastiche non contaminate. Rischi cioè legati alla natura stessa di questi materiali. In merito, una ampia review scientifica pubblicata nel 2020 ha fatto il punto sulle conoscenze acquisite e sui punti ancora da chiarire. La ricerca in particolare si focalizza sui co-formulanti impiegati per migliorare le performance dei materiali plastici, ad esempio per modificarne il colore o renderli resistenti alle fiamme. Tra questi, solo per citare un esempio, metalli pesanti come Zinco, Piombo, Cadmio e Rame.
Il Plasticene e i tecnofossili
La predominanza della plastica nel nostro quotidiano e il livello di diffusione raggiunto dalle forme di inquinamento che ne conseguono ha portato la scienza a definire l’epoca attuale (iniziata nel 1945) col nome di Plasticene. All’argomento, peraltro, il naturalista e biologo marino Nicola Nurra ha dedicato un libro, edito nel 2022.
I materiali plastici possono essere utilizzati come marcatori stratigrafici in campo geologico e archeologico. Una volta accumulati e stratificati, i sedimenti costituiti da frammenti plastici di varie dimensioni hanno un potenziale di conservazione paragonabile a quello dei fossili stabili. I materiali sintetici a base fossile ormai sono così abbondanti e diffusi sulla Terra – specifica la stessa review citata sopra – da poterli considerare "tecnofossili", in quanto costituiranno una prova perenne dell'esistenza dell'uomo sulla Terra.